La fine

Finirai nella pioggia, in una sera d’autunno. Una di quelle in cui la luce dei lampi bussa alla finestra assieme alle gocce dal cielo.

Finirà nella luce nera del buio nel letto, quando il soffitto ascolta e tu dimentichi che è la terra di qualcun altro.

Andrà proprio così.

E farai i conti della tua vita; misurandoti negli anni che hai passato a guardare il mondo da fuori, prima di andargli in pasto come tutti quelli che hai sempre detestato. E ti accorgerai che non ti senti più lo stesso di quei giorni che, ora, ti sembrano cosi’ splendenti; ma è solo il vestito nuovo che gli da il Passato: e si sa, i ricordi sono sempre luminosi, devono esserlo, per farsi largo verso gli occhi nel buio della mente. Finirai a spremere penne su carta, e finirà che solo pochi la leggeranno, così come pochi sono rimasti sulla tua strada di terra,fango e neve. Finirai a cercare intorno a te con gli occhi, accorgendoti che, in fondo, è sempra andata così; perché terra, fango e neve sono stati sempre e solo una tua scelta, e che nessuno é obbligato a seguirti. Finirai a parlare da solo, anche quando quello che ti dirai non ti piacerà, come succede con cio’ che è indiscutibilmente Vero.

Finirà che lo griderai al vento, o che lo scriverai su di un muro, che poi, a ben pensarci, non c’è molta differenza.

Sta di fatto che i giorni e le notti si faranno sempre meno infiniti, perché non sarai mai più davvero solo finché avrai negli occhi le parole appese ad asciugare come fossero indumenti, come dovessi portarle sulla pelle. Perché giungerà anche per te quel tempo della vita in cui non é più il momento di giocare e ne avresti una voglia matta, quando il cuore comincia a scarseggiare di posti a sedere ma possiede ancora troppa memoria da occupare.

E quelle parole saranno ancora memoria dentro di te; perché è nella carne che i ricordi si infilano quando sei distratto. Si infilano nella carne come vermi, fino diventare carne stessa, fino a riempire ogni fibra del tuo corpo. Finirà che starai per scrivere una lettera, e ti fermerai chiedendoti perché lo stia facendo; finirà che ti mancherà tanto da odiarla perché non puoi farle altro che cercare di distruggerla, almeno quello. Almeno per trovare pace dentro alle macerie, sì, perché c’é sempre pace fra le rovine.

Finirà che le parole lette fino ad ora prenderanno senso improvvisamente, mentre cerchi il sonno fra i tuoi pensieri.

Finirai come me; un bambino intrappolato in un corpo adulto.

Sempre ammesso che sia una fine.

G.G.

La notte in cui non accadde nulla

La notte entra in punta di piedi nella stanza sorprendendomi nel letto. Quanto ho dormito? Forse un’ora, non di più; era giorno poco fa. Ho ancora la bocca che sa di birra. Respiro l’aria calda di luglio, resto ancora sdraiato al buio crescente mentre divido il letto con la mia gatta. Dovevamo vederci, Camilla. Saremmo dovuti andare a bere qualcosa insieme. Tu ed io. Invece sono qui sudato e sbronzo, con la mia gatta ad amarmi dai piedi del letto, in questa sera ardente di luglio. Aria densa ed immobile, buio, voglia di fumare sigarette che dovrei uscire a comprare. Uscire in mutande. Pescare monete dal barattolo sul tavolo per non prelevare. Pochi soldi rimasti fino a fine mese. Buio nella stanza; guardo fuori dalla finestra aperta gli ultimi brandelli di luce di un giorno che va sfilacciandosi sfiorendo fra le antenne del palazzo di fronte. Lì davanti abita una famiglia con una ragazzina, avrà diciassette anni, forse. Vedo la finestra della sua stanza. Si arriccia i capelli con le dita mentre chissà cosa sta facendo; non lo vedo da qui. Vedo solo un pezzo di testa, il resto è mistero. Meraviglioso e prezioso mistero fantastico su cui costruire un mondo perverso di fantasie inconfessabili. Dovevamo vederci, Camilla. E invece mi hai lasciato qui, sudato e sbronzo, con solo la gatta ad amarmi nel buio denso e caldo di questa sera in cui vorrei dormire ma l’alcool ha troppo fascino per non cedergli. Accendo una sigaretta; me ne restano due. Dovrei proprio uscire a comprarle. Fumo da sdraiato. Buio. La cenere mi cade sul petto.
Mi hai mentito, Camilla, lo so, lo sai anche tu. Che stupido che sono, e che sciocco gioco è questo. La danza infinita ed insensata di lui che vuole lei che non vuole lui.
Basta. Vado a bere.
E per le strade solo luci e ragazzini troppo impegnati a sembrare grandi per essere belli.
Che fastidio.
Che odio.
L’odio è tutto ciò che mi tiene in piedi stasera.
Questi ragazzini con le loro buffe facce da duri e le mamme a casa, con in bocca ancora l’amaro degli ansiolitici, preoccupate che prendano bei voti a scuola; mentre i loro figlioli dorati sono invece qui fuori, chiusi qui fuori con me; a cariarsi l’anima a colpi di fast food e solitudine pari ed io a consumare nella ruggine quel che resta di questo assurdo cuore di latta che mi ritrovo nel petto. Non credo di essermi mai sentito così lontano da casa come in questi giorni. Mi fanno venire in mente quando anche io ero così. Un ridicolo diciottenne che cercava disperatamente di non dimostrare la sua età. Cosa non si fa per essere accettati dagli altri, quante stupidaggini, quanto disagio affettivo nelle vene.
Cosa non si fa per scopare.
Guardami, Camilla. Guarda come sono ridotto, stasera.
Saremmo dovuti venirci assieme qui, in questa legnosa birreria, ed io ti avrei offerto il primo giro per fare il brillante, e non sembrare il poveraccio che sono; almeno perché tu non te ne accorgessi subito.
Ora guardali lì, come bevono questi allegri fantasmi diciottenni. Un po’ li invidio, è come se bevessero per motivi diversi dai mei; ma certo. Loro bevono per divertirsi, mentre io butto giù questo piscio freddo al gusto di anidride carbonica per avvelenarmi.
So bene che questo veleno uccide, ma ho bisogno di questo veleno, ci sono cose dentro me che devo uccidere; ci sono parti di me che ho bisogno di avvelenare. La distruzione è sincera, l’autodistruzione è densa e luminosa come la verità, ed è proprio la mia verità che cerco di avvelenare. Magari qualcuno lì in mezzo ha il mio stesso intento ma riesce a farlo sorridendo, che invidia, cazzo!
L’alcool è divertente solo se sei in compagnia.
Ma non sono in compagnia, sono seduto qui, vestito di buio e fantasmi. I fantasmi raccontano chi sei. Ci avevi mai pensato, Camilla? Riflettici bene. Chi saresti senza i tuoi fantasmi a farti compagnia nelle lunghe notti in cui provi a ricordarti di te? Oppure quelli che sbucano fuori all’improvviso da un odore sentito di sfuggita per strada, che si pianta nel cervello come un coltello e fa gocciare fuori una cascata di occhi riposti con cura maniacale nel culo del cuore perché non uscissero più a far danni in giro per l’anima, sabotando relazioni apparentemente volute. Quei fantasmi che puoi vedere dentro di lei, quando la luce della luna trasforma i suoi occhi in serrature attraverso cui spiare i loro movimenti senza piedi in giro per le stanze della memoria.
Come un mare visto solo dalla finestra.
Con quelle onde lente e quasi invisibili a fare da spola fra la riva e chissà quale assurdo mistero delle profondità, in cui si agitano i segreti inconfessati degli abissi, nascosti nei diari di bordo naufragati e che oggi riposano sul fondale sabbioso di qualche mare lontano.
Onde lente come battiti di un cuore stanco. Col clangore metallico di questo cuore di latta dal battito lento. E’ il suo punto di rottura che cerco nelle notti come questa. Abbiamo tutti un punto di rottura.
Ma credo solo di essere l’orgoglioso possessore di un cuore che batte lento. E ogni tanto credo si fermi, come se volesse continuamente riprendere fiato. Almeno questa è l’impressione che da, a sentirlo da qui. Ho un cuore che batte lento, che si muove con passo calmo e posato lungo i sentieri che si snodano lungo questa vita.
C’è questo cuore che batte lento; ostinato e cocciuto, sempre lì a camminare sui vetri perché solo il sangue ha valore, solo il sangue è vero.
E allora giù a testa bassa ad attraversare i rovi, incazzato e fiero. Un cuore che batte lento e che, lentamente, continua odiosamente a rialzarsi dopo ogni colpo. Di nuovo in piedi, con le labbra e le mani rotte.
Ho un cuore che batte lento; che è lento nel capire, nel fare luce e anche nel parlare di quello che ha visto.
Ogni tanto credo si fermi, o almeno è quello che spero quando succede. Quando la distruzione sembra finalmente funzionare e i battiti si diradano, e la vista si offusca in favore di una luce indistinta che diventa altrettanto indistinto buio e suoni che spariscono nel nulla di orecchie di carta.
Ma poi apro gli occhi, ed è solo un altro giorno. Roba che non so maneggiare come si deve, e allora lo maledico. Maledico la luce ed il respiro eppure il mio unico desiderio sarebbe quello di riuscire a bere almeno una volta quella luce sovrana dei mondi, di tutti i mondi in cui non sono questa sciocca accozzaglia di dubbi e paure.
Così mi accorgo che non ha funzionato nemmeno questa volta, che il veleno non ha avuto alcun effetto, e che io sono ancora qui, seduto sul letto col fiato grosso e l’affanno, col sudore che sa di birra scadente e la bocca rancida di notte masticata.
Magari oggi riuscirò ad essere un uomo migliore, o morirò provandoci. Intanto continuo ad essere incazzato con la vita invece di convincerla ad essere mia alleata.

Aveva poi torto Alonso Quijano?

Aveva poi torto Alonso Quijano?

Poteva aver torto se alla fine era tutto reale per lui, pur non essendo mai accaduto? No.

“Ad ognuno la sua Verità, la sua dose di fantasia”.

Chi decide dunque il luogo in cui è ormeggiata questa tanto nominata Verità?

Non è stata poi una domanda così assurda quella di Pilato a Cristo.

E chi sei tu per decidere se la mia verità sia valida o meno, chi sono io per farla da padrone nel viceversa?

Esistono sì Verità univoche, ma sono fatti che attengono all’oggettività della Storia e non alla particolarità del presente; anche perché il Presente è tutta un’altra Storia.

Siamo personaggi fuggiti da vecchi libri, siamo protagonisti decadenti, eroi drammatici all’affannata ricerca di altre pagine arate a parole in cui sederci a riposo.

E in quei campi puoi perdere il senno, in quei campi puoi gettare lo sguardo e scollinare l’orizzonte, fino a sorprendere il Sole e la Luna parlarsi di nascosto, occhi negli occhi.

Ci sono ossa stanche di Cavalieri dalle corazze opache; ci sono amori travagliati ed antichi, intermittenti come luce di stelle lontane, affaticati come lettere da luoghi mai uguali.

Ci sono spalle coperte da lana spessa e pioggia fitta dal cielo scuro di mezzogiorno; notti di veglia selvaggia e giorni di sonno spietato, con sangue di polvere nelle vene e cenere sul fondo degli occhi, puntati là dove finisce il mondo, come una disperata richiesta d’aiuto.

In quei campi puoi vedere gli alberi di Atlantide, così come le pareti delle case che oggi sono scogli: case per animali che uomini non sono più.

Laggiù, in quei campi candidi di carta nuova invecchiata senza saperlo con rughe d’inchiostro, può capitare che ci si incontri a metà strada fra storie differenti. E può capitare di vedere Perseo disarmato, sedersi sulla sabbia umida e dividere il vino con Asterione nella calma scura del mare di ottobre; può accadere che un monaco si riposi sulla terra al maggese, prendendosi un momento per guardare lontano durante il proprio viaggio ad occidente, perdendo il pensiero proprio lì, dove il Sole sveglia e l’aria sa di casa.

Laggiù può accadere che si incontri il grande Bromden scrollarsi la prima neve dell’Oregon dalle spalle, pensando ancora una volta a quell’amico lontano che la nebbia ha vestito da fantasma; e se fai particolare attenzione, puoi anche vedere il grande sicomoro sotto cui un omone bambino accarezza i suoi conigli.

Ci sono linee della vita e scie di sogni ancora caldi sparsi tutto intorno, in questo sterminato campo di carta in cui vengono a riposare le vite che vorremmo essere assieme a quelle che non siamo riusciti a comprendere.

Il vento porta con se foglie rosse, che sono le parole dimenticate degli alberi, e gocce di pioggia: consolazione dell’uomo solo. Quaggiù ci sono volti controvento a lasciarsi accarezzare con palpebre serrate, perché il vento non ha bisogno di occhi; perché la sua Bellezza riposa nell’assenza, nella precarietà del suo essere mostrabile, nella sua fuga dall’avidità delle pupille.

C’è così tanto ancora da capire, ci sarebbe ancora così tanto da imparare solo dai colori dell’orizzonte. Laggiù, dove la terra finisce e gli alberi toccano il Sole.

G.G.

Gli occhi di Gilligan

Nei miei sogni balliamo.

Lei ed io.

Nei miei sogni siamo stretti in un respiro accompagnato da quella canzone.

Sono quelli i sogni in cui il cuore accelera, le pareti svaniscono ed il tempo frana nel mondo che sorride.
E lei sorride nel mondo, il mio mondo, che per quell’istante è anche il suo.

Si svolge tutto in un ballo: la durata di una canzone.
Quando non siamo più neanche di carne e non siamo più neanche un luogo, neanche un nome e nemmeno tempo.
Balliamo uno nell’altra, passo dopo passo, semplicemente.
Aria ,ecco cosa, ballando diventiamo aria; ballando diventiamo vita.

E quando balleremo di nuovo, lei ed io, sotto cieli diversi nella stessa musica, sarò cresciuto abbastanza da non avere più paura di perderla.

Perché avrò capito che non è mai stata mia; e non si può perdere quel che non si possiede; e quando arriverà quel momento, mi sentirò adulto a sufficienza da non sporcarlo con parole superflue, le stesse che oggi scivolano fuori dalle labbra in un sussulto d’insicurezza.

Allora avrò smesso di scrivere lettere cercando il suo stupore e mi basterà sentirla fra le mani, senza cercare il futuro per piegarlo ai miei desideri.

Quando balleremo di nuovo, avrò gli occhi di un uomo e i miei anni avranno valore anche sul fondo della mia anima, che basterà a sé stessa. Ed avrò capito davvero di cosa sono fatto.

Il giorno in cui balleremo di nuovo avrò smesso di misurare gli istanti e me stesso; e non avrà importanza che lei mi ami o meno, perché sarò lì con lei e non per lei.

Sarò lì con lei, per me.

E riuscirò a vedere i suoi colori e sentirne il profumo senza chiudere gli occhi.

E avrò smesso di far aspettare il cuore, che invece ascolterò anche di giorno.

Sarò lì con lei, per me.

E riuscirò a vedere i suoi colori e sentirne il profumo senza chiudere gli occhi.

E avrò smesso di far aspettare il cuore, che invece ascolterò anche di giorno.

G.G.